È stato un periodo… intenso. No, intenso è una parola usata, abusata, inesatta.
Apro il dizionario dei sinonimi. Fitto, faticoso, impegnativo, impegnato, pressante, movimentato, denso, febbrile, frenetico.
No. Ancora, nessuna di queste parole è esatta. Nessuna esprime quello che voglio dire – quello che provo, pensando a questo periodo.
Cerco di cambiare, ci provo da una vita. Ci provo, inutilmente, da più tempo di quanto non mi piaccia ammettere. Forse sono io a non voler cambiare? Forse è il mio cervello che non vuole assecondare i miei desideri.
Sono arrivata alla conclusione che le emozioni sono controproducenti. Prova emozioni, prova qualcosa, e sarà più facile averti in pugno. Avere qualcosa su cui fare leva per arrivare a te stessa – per guadagnarsi la tua fiducia, per scavare un tunnel dopo l’altro fino a giungere in luoghi ancora troppo morbidi.
Morbidi. Richiama la parola inglese morbid. Malsano, macabro. Quantomai appropriato. Inside out mi ha traumatizzato. Non voglio essere in balia delle mie emozioni. E perché la tristezza viene vista così male?
Cinque emozioni non possono dominare una persona, non possono annientare migliaia di anni di evoluzione.
Dov’è la paranoia?
Ho preso Paranoia, la mia concubina cocciuta e l’ho accoppata, giuro, come di schianto.
Sono diventata paranoica. Basta un commento o una battuta per farmi guardare alle spalle, per cercarne il significato nascosto anche quando non c’è. Voglio cancellare cose e persone dalla mia vita, conto il tempo che scorre inesorabile e che gli altri sono così pronti a ricordarmi.
Mi sento braccata. Da me stessa, dai miei incubi, dai miei rimorsi e dal ricordo dei sospiri passati. Cerco di scappare, tiro il guinzaglio che mi stringe il collo perché non so fare altro – perché migliaia di anni di evoluzione e le emozioni se ne fottono, riportandoti indietro.
Back to square one.
Mesi fa ho fatto progetti – mesi fa ho capito. Mesi fa ho sbagliato ancora, e ancora mi sono aggrappata con le stesse unghie che non curo più alla mia resistenza ad un cambiamento che una parte di me anela.
Voglio essere più razionale. Fare piani a tavolino, farli funzionare una volta nella mia vita; scegliere qualcosa di realizzabile e concentrarmi su di esso. Sono troppe le cose che non mi divertono più, questo assurdo gioco a rincorrersi (rincorrerci, come se non fosse cambiato nulla e non fossimo cambiati noi, e le illusioni si infrangono facendoci sentire patetici, anche se alla fine sono solo io).
Io so. È la frase più potente e più spaventosa, da dire e da sentirsi dire.
Non voglio sentire il vuoto, non voglio riempirlo.
E quindi fingo. Fingo di volerlo sentire, fingo di volerlo riempire. Anche quando in realtà le mie necessità sono così differenti da aver bisogno di osservare gli altri per ricordarmi quali siano.
Non voglio più volere. Conto. Passo il tempo considerando gli intervalli – fra sei ore devo alzarmi, fra sette ore devo uscire di casa, fra due ore sarò a lezione, fra mezz’ora devo prendere il treno, fra un quarto d’ora sarò nel traffico.
Ho iniziato ad accantonare quello di cui già potevo fare a meno. Mi aspettavo fosse più difficile, o che qualcuno lo notasse – era una specie di prova del nove, o un richiamo a quell’adolescenza che ho abbandonato tempo fa.
I padron ‘Ntoni della nostra epoca non possono capire: la mia adolescenza è stata la prima a fuggire.
Ed è scappata prima che potessi afferarla per i piedi, è andata a fondo prima che potessi lasciarmi trascinare con lei.